Maria Grazia Fida Pedagogista e scrittrice |
Il cristiano dunque deve
evitare con particolare attenzione di fare il buffone ridendo. Il ridere e il gesticolare sono condannati senza
appello assieme a tutto ciò che è connesso al teatro. Il è la lordura del “più
prezioso dei beni che ci sia nell’uomo”: la parola che si disonora nel riso.
Dunque necessita una severa regolamentazione del
riso, al quale bisogna “porre freno”, che bisogna rendere funzionale
all’equilibrio dell’anima, non alla sua sregolatezza, che deve essere
sottomesso alla ragione che ancor più è caratteristica dell’uomo. Il riso
lecito è il sorriso (meidiama), “riso
dei saggi). La donna deve evitare di
ridere come una prostituta, l’uomo come un
prosseneta..., particolarmente sconveniente negli adolescenti e nelle
donne. Sullo sfondo, il riso legato al libertinaggio, all’oscenità, all’ubriachezza.
Il riso fa fuggire la ragione e risvegliare “le passione mostruose”.
La repressione del riso è
stata una delle principali preoccupazioni dei legislaturi monastici. Il più
celebre e il più influente di tali legislatori è san Basilio, le cui Grandi e
Piccole regole (composte nel 357-58) sono state tradotte in latino a partire
dal 397 da Rufino di Aquileia. Nelle Grandi regole (capitoli 16-17, il riso
appare come un aspetto dei piaceri
carnali, consequenza del peccato, che sono di grave ostacolo all’ascesi
e alla salvezza; tuttavia Basilio, influenzato dall’idea greca di enkràteia,(temperanza,
moderazione), raccomanda soprattutto un uso moderato del riso, ma non lo vieta.
Nelle Piccole regole al contrario è molto più severo: “Non è
assolutamente permesso ridere?”. Risposta: “Il Signore ha condannato coloro che
ridono in questa vita. E’ dunque evidente che non esiste circostanza in cui il
cristiano possa ridere”. In effetti, sembra proprio che sia questa opinione
raccogliticcia e senza sfumature che il monachesimo occidentale ha recepito.
Gesù, modello che il
cristiano deve imitare, non ha riso una sola volta durante la sua vita
terrena, come attestano i Vangeli, “Il Signore, come ci insegna il
Vangelo, si è fatto carico di tutte le passioni corporali inseparabili dalla
natura umana, come la fatica. Si è anche rivestito dei sentimenti che
testimoniano la virtù di una persona, per esempio ha manifestato una passione
per gli afflitti. Tuttavia, come attestano i racconti evangelici [Basilio fa
allusione a Luca 6, 25: “Vae vobis qui ridetis nunc, quia lugebitis et
flebitis’], non ha mai ceduto al riso. Al contrario, ha definito infelici
coloro che si lasciano dominare dal riso” (Grandi
regole, 17). Sul tema “Gesù non ha riso una sola volta nella vita”, Antonelli, Firenze 1992, pp. 468 sgg. (La Chiesa e il riso).
Ma chiaramente, i testi più importanti sono la Regola del Maestro e la regola di san Benedetto. L'importanza della Regola del Maestro non deriva solo dalla sua influenza sulla regola di san Benedetto, ma anche dal modo in cui la condanna del riso vi si inserisce in una vera e propria etica antropologica cristiana. La domanda dei discepoli che porta il Maestro a proibire il riso riguarda la grande la grande pratica spirituale del monachesimo, l'osservanza del silenzio o taciturnitas: "De taciturnitate qualis et quanta debeat esse?". Il Maestro risponde ricollocando la disciplina del silenzio in una antropologia cristiana che parte dalla considerazione del corpo.